I social networks rappresentano una piazza virtuale in cui le persone discutono, si confrontano e scambiano opinioni. Capita a volte che le discussioni trascendano il contenuto della semplice manifestazione libera di pensiero e che volino espressioni colorite, anche pesanti, nei confronti dei contraddittori. E’ errato pensare che scrivere su una piattaforma web non comporti alcuna conseguenza, poiché ognuno di noi è responsabile non solo di quel che fa, ma anche di quel che dice o scrive.
Un commento offensivo sulla bacheca di un amico o su un gruppo può integrare il reato di diffamazione e attenzione non soltanto quando il commento è pubblicato in modalità pubblica, anche se il commento offensivo viene pubblicato in un gruppo privato o visibile solo agli amici.
Il reato di diffamazione (art. 595 c.p.) ricorre allorché, consapevolmente, si offenda la reputazione altrui, comunicando con più persone; il reato è aggravato se l’offesa viene arrecata tramite la stampa o con altro mezzo di pubblicità. In tal caso, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Arrecare un’offesa su una pagina Facebook, anche se il profilo è visibile solo agli amici, costituisce diffamazione aggravata. Infatti, se nel profilo si hanno almeno due amici, che possono visionare il post, è integrata la fattispecie di reato. Lo stesso dicasi per frasi contenute in messaggi inviati in gruppi chiusi: se il post è visibile ad almeno due persone, ricorre il reato. Il medesimo discorso vale per i forum o altre piattaforme.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che “l’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, […] in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione” (Cass. 50/2017; Cass. 8482/2017; Cass. 24431/2015; Cass. 41276/2015). I social non sono equiparati alla stampa ma ai mezzi di pubblicità citati dalla norma penale, in cui rientrano tutti quei sistemi di comunicazione e diffusione – dal fax ai social media – che consentono la trasmissione ad un numero considerevole di soggetti.
Ricorre diffamazione anche se non si indicano nome e cognome, difatti se dal tenore del post il soggetto è perfettamente identificabile si risponde comunque del reato per lesione della reputazione altrui. (Cass. 16712/2014). Ad esempio, è stato condannato per diffamazione aggravata l’autore di un post in cui affermava, con linguaggio colorito, che il collega che lo avrebbe sostituito era un raccomandato e aggiungeva altri particolari offensivi sulla moglie.
La condotta offensiva, oltre a costituire reato, può dar luogo ad un’azione risarcitoria in ambito civile. Infatti, la persona offesa può costituirsi parte civile nel procedimento penale di diffamazione oppure intentare una causa civile. In tal caso, dovrà dimostrare di aver subito un pregiudizio alla propria reputazione o all’immagine a causa delle espressioni offensive usate dall’autore del post su Facebook. Es. Si pensi ad un ristorante screditato sul web che, a causa del post offensivo, riceva delle disdette (danno patrimoniale) o alla giovane donna che deve ricorrere ad uno psicoterapeuta per riprendersi dallo shock del messaggio diffamatorio (danno non patrimoniale).
Cosa fare nel caso in cui siamo vittime di tali condotte lesive si può sporgere querela entro 3 mesi dal fatto. Naturalmente, è necessario dimostrare quanto si afferma, perciò occorre indicare il post offensivo e l’autore dello stesso. Occorrerà stampare la pagina web e farla autenticare da un soggetto abilitato. La Cassazione di recente ha affermato che, per la condanna, non è sufficiente individuare il profilo da cui è stato pubblicato il post offensivo, ma è necessario accertare l’indirizzo IP. Infatti, l’accertamento dell’IP di provenienza del post è utile per verificare il titolare della linea telefonica associata. Quindi, se manca l’accertamento dell’indirizzo IP, non si può identificare con certezza il responsabile del fatto (Cass. 5352/2018).